Prenotare un weekend a Istanbul dopo aver visto Chef’s Table su Netflix
Come nasce la voglia di un viaggio?
Magari di un viaggio oltre oceano, o per lo meno in un continente diverso dal tuo?
Ho scritto una lista molto lunga di ciò che personalmente mi spinge a preparare una valigia, a scegliere le scarpe da portare, a comprare i voli giusti, con qualche compromesso di scali e compagnie low cost, a trovare ciò che davvero mi spinge a viaggiare.
Nulla, non ho trovato un vero unico motivo.
Anzi, credo di aver trovato una miscellanea di ingredienti, di storie e profumi da far invidia a Chatwin o a Marco Polo.
Ciò che ci spinge a viaggiare è del tutto personale, così personale da non riuscire nemmeno a spiegarlo, lo si fa per curiosità, per voglia di cambiare aria, per poter portare a casa un racconto esotico, per visitare i luoghi dove i tuoi eroi hanno vissuto, perché vuoi raggiungere qualcuno, oppure, come spesso succede a me, perché scopri una cucina così attraente che non puoi fare a meno di andare a provarla là dove è nata e viene tramandata.
Da Netflix a Istanbul
E’ successo così per il viaggio ad Istanbul, eterna, infinita città piena di sorprese pronte ad ammaliarti.
E’ successo così, semplicemente, mentre con la mia migliore amica guardavamo una puntata di Chef’s table, la classica serata Netflix, abbiamo cominciato a sognare grazie a Musa Dagdeviren e il suo ristorante Ciya, che racchiude le tradizioni di una regione sconfinata.
Con il languorino, gli occhi pieni di amore verso quell’antropologo del cibo che viaggia attraverso la Turchia per recuperare una cucina quasi persa, ci siamo subito fiondate a prenotare il nostro week end lungo culinario nella capitale di quello che è stato uno degli imperi più potenti del mondo.
In un inizio dicembre abbiamo preparato le valigie e siamo partite.
Ad accoglierci: una pioggia torrenziale, un traffico, come quello delle 18 quando devi attraversare la città e hai fretta, e una lingua ostica a dir poco.
Per fortuna, al nostro arrivo al bed and breakfast in centro città antica nel distretto di Fatih, ci aspettava il profumo di agnello arrosto e di frittelle, che non ci ha mai lasciato per tutta la vacanza.
Abbiamo scoperto che la cucina turca, si è semplificata nei decenni, come per un volere del tutto turistico, i ristoranti hanno cominciato a proporre sempre meno piatti caratteristici e sempre più piatti “semplici e veloci”, buoni in ogni caso, ma dopo un paio di giorni, per noi erano diventati piuttosto impegnativi.
Quindi dopo tre giorni di zuppa di lenticchie rosse, irrorate da una buona dose di limone spremuto, kofte, kebab, lahmacun e dolci stucchevoli e pieni di miele (per cui però varrebbe la pena scrivere un articolo a parte), abbiamo deciso di coronare il nostro sogno e di inoltrarci in una zona di Istanbul poco conosciuta dai turisti durante il giorno, ma piena di vita fino a notte tardi: Kadikoy, un distretto situato nella parte asiatica della città, affacciato sul mar di Marmara.
Il quartiere di Kadikoy
Quartiere hipster e giovane della città dove la sera gli amici si incontrano per bere e stare insieme in tranquillità; di giorno invece è incredibilmente pieno di negozietti rustici, che vendono vinili, calze colorate, saponi intagliati a mano, vestiti dark e altre mille mercanzie.
Appena arrivate però, ci siamo fiondate subito nella zona del mercato all’aperto e dei ristoranti , e ci siamo ritrovate in un ambiente vero, brulicante di vita e di persone assonnate che alle 10 mattina alzavano le serrande della loro bottega di pesce, carne, verdura, spezie, datteri, lukum e chi più ne ha più ne metta.
Dopo aver scoperto il dolce più buono e meno dolce del mondo, una specie di stringa di frutta essiccata con le nocciole o le noci, di cui non ricordo il nome, aver svaligiato il posto più bello del mondo per i nostri souvenir, dopo esserci perse per le vie di questo coloratissimo quartiere, ci siamo riposate e rifocillate in una panetteria che sfornava byurek caldi e ripieni di formaggio fresco, spinaci, carne macinata, formaggio filante e ci siamo sciolte nel caldo di quel formaggio che in Italia non si trova mai, bevendo tè bollente, rigeneranti per quel gelo tagliente.
Un aperitivo perfetto, servite e riverite da un gestore panciuto e pieno di barba che ci ha regalato un pezzetto di byurek in più.
Insomma un delizioso inizio per una giornata che si pregustava diversa.
Il vero motivo del viaggio: il Ristorante Cyia
All’una spaccata, come delle vere milanesi imbruttite, ci siamo sedute al tavolo del piano alto del ristorante da noi tanto anelato da mesi: Cyia.
E così ci siamo tuffate in una avventura culinaria non da poco, per stomaci forti e nasi non troppo delicati. Abbiamo affrontato con decisione, un lahamacun eccezionale, delle polpettine di tapioca con menta e yogurt e dell’ intestino di agnello da latte ripieno di bulgur con una salsa di pomodoro, il tutto accompagnato dall’ayran casereccio più buono che avessi mai assaggiato (per chi non lo conosce è una bevanda tipica dei balcani, a base di yogurt fresco, sale e acqua).
Il dolce non ci siamo azzardate a prenderlo visto l’imponenza del pranzo. Così rotolanti, siamo tornate verso la città antica, nella zona occidentale, con gli ambulanti che arrostiscono le pannocchie, i caldarrostai, i gatti imploranti che vogliono qualsiasi tipo di cibo, e il forte, fortissimo profumo di agnello arrosto.
L’ultimo pasto di questa vacanza breve, ma meravigliosamente intensa, l’abbiamo mangiato in un ristorante turistico, ringraziando i gusti meno intensi di quella zuppa di lenticchie rosse e limone e le polpettine di agnello e cipolla.
Ma se c’è una cosa di cui sono certa è che ci torneremo. Come ci siamo promesse davanti all’ultimo dolcetto fritto pieno di miele e pistacchi, bevendo la spremuta di melograno, nar eksisi, più buona che abbia mai assaggiato. Ci torneremo per rivivere quei 5 giorni di freddo, cultura, storia e cibi deliziosi, ma impegnativi, che tanto abbiamo amato, e che ancora ci portiamo dietro nei ricordi.